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SE MI PRENDO CURA DI ME, CHI SI OCCUPA DEL MALATO DI DEMENZA? (SECONDA PARTE)

Immagine del redattore: dott. Pietro Caputodott. Pietro Caputo


Innanzitutto, mi preme iniziare questo post con un profondo ringraziamento verso tutti coloro che hanno dedicato del tempo alla lettura e che si sono interessati alla prima parte.


Come scritto, mi sarebbe piaciuto rispondere ad ognuno, ma sarebbe stato molto dispendioso per me in termini energetici e soprattutto non funzionale per voi familiari (ogni caso è a sé ed è doveroso dedicarci tempo per gli approfondimenti vari).


Ma torniamo a noi.


Come da titolo, l’argomento è “se mi prendo cura di me, chi si occupa del malato di demenza?”


La prima considerazione su cui ho riflettuto e che abbiamo condiviso la scorsa volta è stata la possibilità di prendersi cura dell’ammalato e “anche” di sé.


La seconda considerazione invece, oggetto di oggi, è l’immagine di una sola persona che si prende carico del malato di demenza e di tutta la situazione problematica.


In altre parole, non prevedere del tempo dedicato a sé (perché altrimenti non ci sarebbe nessuno ad aiutare o ad occuparsi dell’ammalato) può essere la conseguenza di un pensiero secondo il quale il caregiver sia solo e soltanto uno.

Ma può essere veramente così? (so bene che nella realtà succede anche questo…)


Può una sola persona occuparsi di tutto (ammalato, pratiche burocratiche, famiglia, figli, lavoro ecc.) oppure una situazione del genere presuppone una presa in carico di tutto un sistema, di ad esempio la famiglia, o di più sistemi (famiglia, comune, stato ecc.)?


Se la risposta prevalente è verso una presa in carico “allargata” dell’ammalato (fermandoci al sistema familiare), è indubbio che una condizione da soddisfare è la volontà del caregiver a chiedere aiuto oppure, da un altro punto di vista, che gli altri membri della famiglia siano disponibili a dare il loro supporto.


Per alcuni caregivers è molto difficile chiedere aiuto e le ragioni sono molteplici e spesso dipendono da dinamiche personali e relazionali. In alcuni casi, poi, si chiede aiuto “con la parola” (razionalmente), ma a livello emotivo spesso si rimane chiusi, portando gli altri membri della famiglia a chiudersi di conseguenza.


In altre condizioni, invece, si assiste a una “fuga” di tutta la famiglia, lasciando solo l’unico familiare che diventa di fatto il caregiver di riferimento.


Dinamiche complesse, situazioni molto difficili…


Ma cosa può fare un caregiver nella pratica?


  1. prevedere “altre persone” nel processo di cura (sembra scontato, ma non lo è): le nostre energie sono limitate e siamo umani, perciò è fondamentale chiedere aiuto.

  2. iniziare a delegare qualcosa, in maniera tale da iniziare a ritagliare del tempo per costruire il proprio benessere;

  3. coinvolgere altri sistemi, come il proprio comune (attraverso i servizi sociali), associazioni varie ecc.

Come dice un vecchio proverbio:


"Un dolore condiviso è un dolore dimezzato"


Parola d’ordine quindi: “COINVOLGERE GLI ALTRI

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