C’è stato un periodo della mia vita caratterizzato da una corsa perenne, ventiquattro ore su ventiquattro, verso un traguardo che ancora oggi stento a comprendere.
Lavoravo tantissime ore al giorno, in diverse strutture, andando da una provincia all’altra in mezzo al traffico, mangiavo sempre in fretta e non dedicavo del tempo ai miei cari e anche quando non lavoravo la mia mente era come un criceto sulla ruota, in continuo movimento. Inoltre, dormivo malissimo, anzi quasi non dormivo, e facevo continuamente incubi. Praticamente, una tragedia!
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La cosa buffa è che questa condizione l’ho mantenuta per quattro lunghi anni. Nelle rare occasioni in cui riflettevo su quella mia situazione di vita, dicevo a me stesso che tutto era necessario, sia per la carriera che per guadagnare, che era un momento e che sarebbe passato. Ogni giorno mi raccontavo delle favole per non entrare in contatto con quella parte di me che era infelice e che voleva un cambiamento radicale, a cui non era preparato. Il mio mantra era correre, correre, correre.
Ma stavo pagando dazio, molto amaro. Provavo rabbia, irascibilità, ansia, tristezza. Ero spesso molto negativo e cupo in viso. In pratica, non una persona con cui si ha il piacere di stare in compagnia. Tralasciando poi i rapporti più stretti, che praticamente stavano andando a rotoli, e la mia salute, che ne stava risentendo pesantemente.
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Poi, per diversi motivi, ho deciso un giorno di non rinnovare un contratto di lavoro e questo mi ha liberato diverse ore alla settimana. Mi sono ritrovato quindi a stare per forza in compagnia di me stesso. Che tragedia all’inizio, quanta difficoltà! Non riuscivo a stare fermo per un minuto: ero sempre a crearmi dei lavori anche in casa pur di non fermarmi. Ma poi ho deciso di ritagliarmi uno spazio di silenzio quotidiano di cinque minuti da dedicare alla meditazione, perché ero stufo di essere sentirmi emotivamente e psicologicamente a terra. Era sì uno spazio, ma non di silenzio, perché nella testa era un continuo chiacchiericcio. Ma con la costanza e la pratica, sono riuscito a ritagliarmi 30/45 minuti al giorno e ora mi capita spesso di rimanere felicemente in quel silenzio.
Non avrei mai immaginato i risvolti positivi di tutto questo! Infatti, i cambiamenti sono stati radicali, a tutti i livelli, e la mia salute ne ha giovato tanto, ma soprattutto mi sento più sereno e in armonia con me stesso.
La cosa che ho notato è soprattutto che questi cambiamenti positivi in me hanno avuto un enorme impatto anche sugli altri, migliorando tutti i rapporti, proprio come un effetto domino. Non è stato semplice, anzi, all’inizio è stata veramente dura.
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L’insegnamento che ho tratto da questa esperienza è che darsi la possibilità di rallentare e di stare con se stessi può renderci più equilibrati e sereni e soprattutto può essere una “strategia paradossale” per gestire i numerosi impegni della vita quotidiana, perché ci permette di non disperdere energie continuamente.
Quando ci si prende cura di un malato di demenza (oltre che della propria famiglia e dei propri problemi personali) correre è all’ordine del giorno. Ma questa corsa invece di essere la soluzione ai problemi diventa essa stessa un problema con ripercussioni negative sulla salute del familiare e sulla relazione con l’ammalato. Infatti, in queste condizioni è più facile perdere la centratura, la serenità e quella pazienza necessarie per gestire il malato di demenza, che per giunta avverte questo nostro marasma di emozioni negative.
Ecco allora che rallentare diventa uno strumento potente e alla portata di tutti, un antidoto magnifico, che può guarirci e rendere le nostre relazioni più intime più serene, soprattutto con l’ammalato.
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