Si dice che sbagliare è umano e nel caso della demenza la possibilità di farlo è molto probabile. Tutti coloro che hanno a che fare con un malato di demenza, in primis i familiari, si trovano ogni giorno a dover affrontare tante sfide alle quali non sono stati preparati. E anche quando si abbiamo competenze e formazione, sbagliare è sempre dietro l’angolo. Perché? I motivi sono tanti. Dalla mia esperienza, alcuni di questi possono essere:
Perché è molto difficile entrare nel mondo di chi soffre di questa malattia;
Perché le cose cambiano continuamente e quindi una strategia che ha avuto successo un giorno non funziona in un’altra occasione;
Perché è difficile adeguarsi ai cambiamenti repentini dell’ammalato, che in alcuni casi non sono visibili, e che necessitano di una nostra flessibilità.
Perché la demenza non è uguale per tutti gli ammalati: nonostante la malattia, ognuno mantiene la propria personalità e quindi ogni ammalato necessità di un approccio specifico.
E così via . . .
Da queste premesse quindi sbagliare è all’ordine del giorno. E succede a tutti.
Non oso immaginare a chi è direttamente e costantemente a contatto con l’ammalato ogni giorno!
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Mi ricordo che all’inizio del lavoro mi “sentivo” un disastro con gli ammalati. Mi facevano delle domande e io nutrivo un sacco di difficoltà a rispondere, malgrado avessi studiato i diversi approcci alla demenza. In questi momenti, ho taccato con mano cosa significa “fare esperienza”. Oppure, di fronte a dei disturbi comportamentali come l’ansia, l’aggressività o l’isolamento, mi trovavo in grandissima difficoltà e non sapevo come gestire il paziente. Quindi, andavo a casa e pensavo e ripensavo ai miei errori e me ne facevo una colpa: mi sentivo sbagliato. Per sopperire a questo, studiavo sempre di più, ma non avevo tantissimi risultati.
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Ho sentito un cambiamento quando, confrontandomi con un collega su queste mie problematiche, lui mi fece una semplice osservazione: “Pietro, una cosa è sbagliare, un’altra cosa è mettere in discussione te stesso per i tuoi errori. Forse pretendi troppo da te. Hai mai pensato al tuo lato perfezionista?”
Mazzata… l’ho sentita subito nello stomaco. Ma mi ha aperto un mondo.
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Ho capito che continuare a utilizzare quella strategia di studiare sempre di più in risposta a degli sbagli era solo un modo per gestire questa mia incapacità di non accettare di sbagliare, di non essere lo psicologo perfetto che sa gestire tutti i malati di demenza del mondo e per giunta onnisciente.
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Ho voluto raccontare questa mia esperienza perché mi capita di parlare con dei familiari che mi dicono che si sentono sbagliati, che malgrado libri, percorsi psicologici, incontri di auto mutuo aiuto fanno difficoltà a comprendere come trovare un rimedio a questo loro sentire.
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In merito, è necessario fare quindi una distinzione: tra gli errori e il sentirsi sbagliati.
Come suddetto, sbagliare è umano e in questo ambito è molto facile. La cosa importante è fare esperienza dello sbaglio stesso per evitare di ripeterlo.
Come dice un filosofo: “mi auguro di fare uno sbaglio quotidiano, ma non sempre lo stesso.”
Il “sentirsi sbagliati” invece è più legato all’immagine che si ha di sé. Quindi, in questo caso, il lavoro da fare è più profondo.
Cosa si può fare? Tre suggerimenti:
“Ascoltarsi profondamente”;
“Accettare le proprie fragilità;
Accettare il fatto che non esiste la perfezione, ma solo il miglioramento continuo (che dura tutta la vita)
Come diceva Edison: "Non ho fallito. Ho solamente provato 10.000 metodi che non hanno funzionato."
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