Qualche settimana fa, un familiare ha espresso una sua opinione ad un mio post, scrivendo che le capitava di arrabbiarsi con sua mamma malata di demenza perché non le “ubbidiva”.
La sua reazione a questa “insubordinazione” era soprattutto di rabbia, alla quale facevano seguito sensi di colpa e vissuti di tristezza.
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Sono rimasto colpito da questo commento, non per la sua particolarità, ma perché mi ha richiamato alla mente tante altre occasioni in cui ho sentito la stessa identica cosa, sia da parte di altri familiari sia da diversi professionisti sanitari. In tutti i casi, i caregivers esperivano un vissuto emotivo negativo in risposta alla “disubbidienza del malato”.
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<<Io non capisco perché faccia così mia madre. Le dico di fare una cosa e ne fa un’altra. E poi combina un sacco di pasticci, e io vado fuori di testa!>>.
<<Devo stare sempre attenta, non mi ascolta mai. Gli dico una cosa, ma è come se non mi sentisse: fa di testa sua. Non so come fare. Mi arrabbio, ma lo so che non serve e poi ci sto male!>>.
<<Stai seduto! Dove vai? Ti avevo detto di stare fermo lì! Non muoverti sennò cadi.>>
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Durante il percorso che svolgo con i familiari (ma anche nelle supervisioni cliniche), ho notato che questa dinamica emerge spesso: alla base di questa apparente e semplice necessità in realtà sembra celarsi un bisogno profondo di controllo.
Nello specifico, ogni qualvolta l’ammalato si comporta come vuole il familiare/operatore, dà a quest’ultimo la sensazione di avere tutto sotto controllo (oltre al fatto di essere “un bravo caregiver”). Quando disubbidisce invece il familiare/operatore sperimenta una certa “perdita di controllo”, che non è affatto facile da gestire emotivamente. Il più delle volte, infatti, reagisce con rabbia, a cui seguono sensi di colpa e tristezza.
Come si può facilmente notare, questo meccanismo disfunzionale ha un alto costo, sia per l’ammalato, che si sente forzato e non compreso, sia per il familiare, che paradossalmente sperimenta spesso vissuti emotivi negativi, con conseguenze sul suo benessere.
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Quali strategie, quindi, può utilizzare il familiare per evitare di alimentare questa dinamica e soddisfare in maniera genuina i suoi bisogni e quelli del malato di demenza? In questo post ne ho selezionate quattro:
Utilizzare la consapevolezza (mindfulness): permette di essere presenti e vigili rispetto ai pensieri, emozioni e sensazioni corporee;
Tenere ben chiari e distinti i propri bisogni da quelli dell’ammalato: spesso, infatti, si ha la tendenza a proiettare sull’altro le proprie necessità a discapito dell’altro, con ripercussioni sulla relazione di cura;
Avere sempre in mente che non esiste il “bravo caregiver” e il “cattivo caregiver”, ma una persona che, malgrado tanti errori, si occupa di un ammalato e che fa tutto il possibile per donare le sue attenzioni e cure;
Praticare il “lasciar andare” (una delle cose più complesse): permettere quindi all’altro di esprimersi e di fare come reputa, con tutte le precauzioni possibili, a discapito del nostro bisogno costante di controllare tutto e tutti.
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Come diceva Lao Tzu nel (Tao Te Ching):
“Quando lascio andare quello che sono, divento quello che potrei essere. Quando lascio andare quello che ho, ricevo quello di cui ho bisogno.”
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